venerdì 21 marzo 2014

Vita di un libro nel XXI secolo

Guardar lontano
Il primo pensiero che ti viene è quello di scrivere per vedere le tue parole stampate su un libro che sarà letto e commentato e, forse, ricordato da quelli che un giorno potranno definirsi tuoi lettori. Così cominci a scrivere e scrivere, mandi racconti a blog, tempesti di mail scrittori e critici, nessuno che ti risponda, ma non ti scoraggi, pensi che questa è la strada giusta, pensi che scrivere sia l'unico dovere dello scrittore, e forse è davvero così, ma poi arriva un giorno, uno di quei giorni in cui tutto sembra chiaro e impossibile allo stesso tempo, quei giorni che capitano una volta ogni dieci anni, se va bene, e quel giorno prendi coscienza dell'oggetto libro e del processo editoriale che lo guida e della vanità, della tremenda vanità e dell'ancor più atroce follia che spinge molte, troppe  persone a scrivere per la celebrità.

Il libro, per cominciare, viene scritto, poi viene pubblicato, e poi promosso, e infine letto e giudicato, e, ahimé, archiviato. Di questi sei passaggi è forse il caso di sottolineare come tutti possano partecipare al primo e al secondo (leggi editoria fai da te o a pagamento), molti al terzo, pochi al quarto e quinto, tutti al sesto. Questo significa che se tutti gli scriventi aspirano alla pubblicazione e che, se tale desiderio è tanto legittimo quanto facile da essere soddisfatto, tutt'altro discorso è quello relativo alla lettura e al giudizio sull'opera. Una eccellente campagna promozionale, si sa, può mandare in testa alle classifiche qualunque libro, ma solo pochi privilegiati possono permettersi di godere, tanto più se si tratta di un esordiente, di una promozione di tale potenza da sbaragliare la concorrenza e ritrovarsi sui banchi di tutte le librerie del paese. Per questo motivo è bene focalizzarsi sull'altro fattore decisivo affinché un libro passi dall'anonimato della pubblicazione alla notorietà del libro letto e chiacchierato: il ritornello vincente. Quando un libro comincia a essere notato e discusso, significa che lo scrivente è riuscito a imbroccare quello che a Sanremo viene definito un ritornello vincente. In letteratura il ritornello vincente è costituito da (in ordine di importanza): copertina, plot e biografia dello scrivente. Se il primo e lo secondo sono azzeccati (un esempio su tutti "La solitudine dei numeri primi": titolo splendido, copertina incantevole e plot solidissimo), la notorietà è assicurata. Altra cosa, invece, è l'apprezzamento, che può nella nostra epoca è facile quanto la pubblicazione, visti i numerosissimi siti di recensioni dei lettori e l'appiattimento pressoché totale da parte della cosiddetta critica letteraria, a parte rarissimi casi di autentica analisi letteraria. 

Per questo motivo, è bene dirlo: è meglio non affannarsi a scrivere-e-pubblicare, se l'obiettivo è quello di raggiungere la celebrità, visto che la fortuna di un libro è indipendente dalla volontà di chi scrive. Meglio scrivere solo se ciò costituisce un vero piacere e, soprattutto, se la volontà dello scrivente non è quella dell'affermazione ma la ricerca, talvolta impossibile, della compiutezza e della bellezza dell'opera stessa.   Solo in questo modo uno scrivente può ignorare quello che è il destino di ogni libro: il macero. Alcuni scriventi dicono di scrivere per sentirsi eterni, ma la realtà è che è la propria opera a estinguersi (per scarsità di lettori e ancora maggiore pochezza di vendite) prima ancora della dipartita del suo autore.Quanti libri di narrativa stampati quindici anni fa sono oggi in commercio? A parte gli autori celeberimmi, nessuno. 

L'apprezzamento definitivo, è bene ricordarlo, è sempre postumo. Non possiamo sapere se "Il nome della rosa" o "Va' dove ti porta il cuore" resteranno nella storia della letteratura. Lo sapranno i nostri figli, forse, certamente i nostri nipoti. Basti pensare a quanti best-seller sono stati osannati al momento della pubblicazione e dopo appena trent'anni erano già stati dimenticati dalla nuova generazione di lettori. 








venerdì 18 ottobre 2013

Note a margine di V.


Del mese di settembre ricorderò il trasloco, la vecchia cosa ingombra di scatole, la nuova appena imbiancata e con le finestre perennemente spalancate e i vetri coperti di fogli di giornale, mia figlia che piange e chiede di andare a casa, mia moglie che s'affanna a pulire e sgombrare la casa di tutte le scatole, io perso a ordinare la nuova libreria, l'odore di legno che si sente ancora nello studio e in camera e in cameretta, e la cucina così grande, la sensazione che con tutto quello spazio potremmo vivere qui a lungo,  forse per sempre, e poi ricorderò una giornata passata insieme a mia moglie per le strade di un'altra città, mano nella mano, per un giorno di nuovo fidanzati, seduti vicini al tavolo di una pizzeria a pensare ai colori della casa e alla sistemazione dei mobili e ai vantaggi che avremo dalla nuova abitazione, e poi ricorderò un romanzo bellissimo come "L'amante" di Yehoshua, il dispiacere nel leggere l'ultima pagina, la strana sensazione di provarlo a raccontare senza riuscirsi, perché tutti i libri che ho amato non riesco a raccontarli. 

Lavorare camminare lavorare

Si passa molto tempo al lavoro, troppo, sostengono molti, poco, ribatte chi un lavoro non ce l'ha o ce l'ha ma solo per modo di dire. Resta il fatto che si lavora troppo, e si parla troppo di lavoro, e si pensa troppo e quasi solo al lavoro nel tempo che avanza tra un incarico e l'altro, o tra l'entrata e l'uscita dall'ufficio, siamo quello che facciamo, dicono alcuni, e forse è vero, ma quello che sembra più vero del vero è che il lavoro ci tiene stretti alla sedia, se abbiamo una sedia, o alla catena di montaggio, se di quella si tratta, per così tanto tempo da non ricordarci più cosa resta di bello fuori dalla porta d'ingresso dell'ufficio, ditta o fabbrica nella quale entriamo ogni giorno, festività escluse, della nostra vita. 
Una buona abitudine è quello di sabotare, di tanto in tanto, il lavoro. Ritardare l'ingresso, anticipare l'uscita, rallentare il ritmo di lavoro, prendersi una pausa, rimandare il necessario, fare del superfluo l'indispensabile, ridere delle urgenze e fare di un capriccio un urgenza. Qualche volta funziona,  e allora si esce dal lavoro riposati, e la sera è possibile cenare con la mente sgombra, guardare un film senza addormentarsi a metà, andare a letto e scambiare due parole con la propria moglie riuscendo ad assaporare il piacere del sonno che sta per arrivare, eccolo, è arrivato, buona notte. 
Un'altra buona abitudine è quella di convincersi che il lavoro sia solo succedaneo a qualcos'altro. All'amore, ai viaggi, alla famiglia, alla letteratura, alla musica, ecc. E in quanto succedaneo, va preso per quello che è: in mancanza d'altro, ti dedico il mio tempo, ma non crederti più importante di quel che sei, un succedaneo, un sostituto, un alter ego di qualcosa di infinitamente più grande e più bello. 
Infine bisognerebbe sempre voltarsi verso la finestra e guardare che tempo fa e pensare che anche oggi usciremo da quella porta e faremo le scale e sarà una meraviglia attraversare la strada e osservare il colore del cielo e delle nuvole all'imbrunire, e il ronzio dei motorini, e il volo delle ultime rondini disperse sopra gli alberi, e l'odore di biancheria stesa che resta sospeso nell'aria dopo una lunga giornata di lavoro. 

martedì 15 ottobre 2013

I romanzi che sconfinano


In principio erano i romanzi a piacergli, solo i romanzi, meglio se lunghi, meglio se talmente complessi da perdercisi dentro, ancora meglio se poderosi nella struttura e nelle ambizioni. Poi vennero i racconti. Brevi, brevissimi, fulminei. Da leggere e rileggere, fino a conoscerli a memoria e poter annunciare a tutti che sì, il racconto, è la massima forma narrativa esistente. Poi ci fu il tempo dei romanzi ibridi, né romanzi né racconti, quelli che da qualunque parti li prendi non riesci a venirne a capo, perché un capo non ce l'hanno, perché sono inafferrabili e inclassificabili, sono i romanzi del XX secolo che hanno sfondato i confini e si sono presi il XXI secolo in anticipo, parliamo di "Underworld"(1997), "Detective selvaggi" (1998), "La controvita" (1986), "Canti del Caos" (2001-2009), i romanzi che hanno mandato in frantumi il romanzo classico borghese del XIX secolo per prendere su di sè tutto il meglio e il peggio del XX secolo (guerre, nascita e fine delle ideologie, boom economico e recessione, nascita e sviluppo delle tecnologie multimediali come tv, cinema e internet) e farlo riecheggiare nelle proprie pagine. Questi romanzi hanno forse un protagonista? No. Sono ambientati in un epoca e in un luogo determinati? No. Hanno un inizio e una fine? No. Sono libri zeppi di storie addensate e aggrovigliate tra loro da un nucleo rovente che tu, lettore, puoi solo percepire nel corso della lettura senza mai poterlo identificare in qualche modo. 
Qui sta il nocciolo della riflessione: dovrebbe essere vietato, oggi, scrivere romanzi secondo i vecchi canoni del romanzo borghese del XIX secolo! 

martedì 4 giugno 2013

CAINO (J. Saramago)

E' una cosa che capita solo con i geniacci folli e visionari, Picasso, per esempio, oppure Calvino, tanto per restare in ambito letterario, oppure Miles Davis. Invecchiare come sinonimo di rinascita, arrivare al limite per riprendere in mano la storia e raccontarla in una maniera diversa rispetto alla solita.

Prendiamo l'ultimo autoritratto di Picasso, mettiamo su uno degli ultimi dischi di Davis e leggiamo le prime pagine di "Se una notte d'inverno un viaggiatore". 

Picasso mostra una scimmia che assomiglia a Picasso, Miles Davis ci dice che la sua musica è una seduta spiritica in forma elettrica per evocare lo spettro del futuro, Calvino ci parla di un mondo frantumato e molteplice dove ogni storia è indipendente dalle altre, la realtà è inafferrabile e la soluzione ai problemi una spirale che si avvolge su di sè all'infinito. 

Saramago racconta una antica favola, e lo fa smentendo chi lo ha preceduto, e così facendo ci lascia davanti a una voragine che è la nostra condizione di esseri umani nel XXI secolo.

Cosa fanno, in sintesi, Picasso Davis Calvino Saramago?

Dopo un lungo percorso si fermano, si voltano indietro e, con il minor numero di elementi possibili (il tempo corre, la fine è vicina), emettono l'ultimo verso prima della fine, e il verso che emettono sorprende tutti, perché la verità, qualunque essa sia, è sempre un ospite sgradito e maleducato.


Note di V. 

Del mese di maggio ricorderò la pioggia, le pioggia battente durante un corteo di studenti,  il mio lavoro sulla bocca di tutti, il mio futuro a rischio, di nuovo alla ricerca di un lavoro, i concorsi, i concorsi, quanti ce ne sono, ce ne sarà uno che farà per me? Del mese di maggio ricorderò mia figlia che balla che le mani sulle ginocchia, il ritorno della febbre, il freddo quando mi spoglio per andare a letto, il sonno che mi prende dopo nemmeno mezz'ora di tv, mia moglie che salta di gioia vedendomi arrivare a casa e io che penso, questa sì che è fortuna. 



venerdì 26 aprile 2013


HO SPOSATO UN COMUNISTA 

Leggere un romanzo di Philip Roth è una continua carica di adrenalina e vitalità, difficile cominciare un suo libro e fermarsi a pagina 10, o a pagina 20, a meno di qualche molestatore di turno che chieda l'ora o una sigaretta o qualche spicciolo, proprio perché il suo stile - anzitutto il suo stile - è travolgente. Prendi in mano il libro, ti dici che leggerai solo l'incipit e poi - prima di esserti andato a sedere e aver spento il cellulare - ti accorgi di essere già a pagina quaranta,  e ora che ci sei, vale la pena arrivare alla fine del primo capitolo, e quando ci arrivi, perché fermarsi, vediamo come comincia il secondo capitolo, e così via. Proprio ieri mi dicevo che in una storia che voglia restare nella memoria del lettore deve esserci divertimento, indignazione e commozione; e mentre me lo dicevo pensavo ai libri che mi hanno fatto sobbalzare dall'entusiasmo, e non sono stati pochi, e tutti riuscivano a farmi ridere e arrabbiare e poi, sì, quando meno me l'aspettavo, a commuovermi. Penso a "Il processo" e "America" di Kafka. Penso a "Addio alle armi". Penso a "Viaggio fino al termine della notte". Penso a "Oblomov", "Anime morte", "I demoni", "Madame Bovary", "Tamburo di latta". E ai più recenti "Lamento di Portnoy", "Indignazione", "Sunset Park", "La scopa del sistema", "Piazza d'Italia", "La vita agra", "Il maestro di Vigevano", ecc. 
Ecco, ho cominciato oggi, 26 aprile, a leggere questo romanzo,  sono arrivato quasi alla fine del primo capitolo. Se l'autobus avesse rallentato la sua corsa avrei finito il primo capitolo, ma l'autista doveva essere in ritardo, oppure essere di pessimo umore, perché tra la salita e la discesa non ho letto nemmeno dieci pagine, giusto il tempo di leggere la rabbia del padre di Nathan nel sapere che il figlio appoggia entusiasticamente la campagna elettorale del candidato presidenziale progressista. 

 ---    

Note a margine di V.

Del mese di aprile 2013 ricorderò la spiaggia piena di gente e l'acqua gelata del mare e tre bambini (tra questi, mia figlia) che mi attorniavano e volevano giocare giocare giocare,  e poi ricorderò la pioggia, tanta pioggia, i piedi bagnati, le pozzanghere, gli schizzi d'acqua delle macchine mentre aspetti l'autobus, l'enciclopedico libro di Bolano "Detective selvaggi" e un paio di racconti di Alice Munro, il compleanno di mia figlia festeggiato in casa con i nonni, lei vestita di rosso, il piacere di mangiare il gelato con le mani e il sonno improvviso appena finito di mangiare, la proposta di acquisto di una casa, il rifiuto, la nuova ricerca, la cucina di mia moglie e i suoi sorrisi quando torno a casa dopo una giornata di lavoro. 

mercoledì 13 marzo 2013



Non ci aveva mai pensato prima, ma in tutto il tempo trascorso tra la fine del precedente incarico e l'inizio del nuovo non si era fermato un attimo per fare il punto della situazione, scrivere due righe, convincersi di avere fatto la scelta migliore e di essere approdato, sì, a qualcosa che sembrava essere definitivo, per quello che ci può essere di definitivo, oggi, in un posto di lavoro. La collega che lo aveva preceduto, alla quale era stato chiesto di effettuare un passaggio di consegne tale da permettere un graduale e armonico inserimento, gli aveva consegnato un post-it il giorno prima di salutare tutti, un fogliettino rosa con sopra scritti quattro nomi di studenti, studenti tutor, disse, capaci a tutto e svegli e sempre disponibili, se hai bisogno, gli disse, chiamali quando vuoi e loro ti aiuteranno. Poi era cominciato il nuovo incarico, tra perplessità di alcuni docenti, malumori di altri, scetticismo dei più, entusiasmo di pochi. Passarono pochi giorni, e lui lavorava duro, senza badare a orari, si promise di sbrigare tutto il lavoro entro le cinque e mezza, lasciare l'ufficio senza mail inevase o richieste urgente non esaminate, e così fece, e presto ci fu chi si complimentò per la nuova gestione del corso di studi. Una mattina uno studente sgranò gli occhi e disse, ma sai che da quando ci sei tu si respira un'aria diversa qua dentro? In che senso, chiese lui. Nel senso che rispondi alle nostre mail, ci informi di tutto, non lasci mai passare più di un giorno senza portare a termine una nostra richiesta, di qualunque tipo essa sia. 
Quella sera sognò Lisbona, una strada pedonale fiancheggiata da grandi vasi di piante in fiore e un magnifico cielo azzurro che si stagliava sopra i tetti di un palazzo Liberty dall'aria maestosa. La mattina dopo si svegliò più riposato che mai e a chi un ufficio gli chiedesse come andavano le cose con il nuovo incarico, lui rispondeva indicando il viso e confessando che sì, era dura, ma erano più le soddisfazioni delle fatiche e quindi non poteva che ritenersi fortunato, molto fortunato, ad essere dov'era.